La cura della salute era una pratica diffusa fra le popolazioni celtiche, prerogativa della casta dei Druidi ed ancorata a due protocolli: il potere di guarigione – ottenuto attraverso segrete tecniche di iniziazione sciamanica – ed il ricorso ai doni della natura quali piante, minerali, animali ed acqua.
All’epoca si credeva che a poca distanza da ogni luogo in cui si manifestasse una malattia, immancabilmente nascesse anche la pianta in grado di debellarla.
Una sorta, quindi, di anticipazione della Teoria della segnatura medievale, secondo la quale il Creatore si sarebbe preoccupato di lasciare segni di identificazione sulle piante per indirizzare i medici verso la cura più appropriata.
Questo favoriva, nei casi positivi, la casuale scoperta di virtù curative in alcuni vegetali; resta comunque un metodo grossolano ed empirico tale da indurre molti a raccogliere sbrigativamente tutte le erbe del luogo, mescolandole in un’unica pozione, con risultati facilmente immaginabili.
Fra magia e religione
Più fonti evidenziano che le antiche cure mediche a base di piante, erano sempre accompagnate, anche durante la raccolta, da rituali a metà fra magia e religione, e a lungo continuarono ad essere la pratica usuale delle popolazioni celtiche e non solo.
Un esempio emerge da una cronaca del 1746 (già da un millennio i Druidi erano stati sostituiti da monaci cristiani) in cui un certo Jhon Roy Stewart si distorse una caviglia mentre cercava di nascondersi dopo la battaglia di Culloden, nelle Highlands scozzesi.
Affermava in perfetta lingua gaelica:
“Ni “i’nt bhaidh rinn Peadar do Phal,
‘S ‘luighean air fas leum bruaich,
Seachd paidir n’ ‘inm sagairt is
Pap Ga chuir ris na phlasd mu’ ‘cuairt.”“Farò l’incantesimo che Pietro fece per Paolo,
con le erbe che nascono sul terreno,
dirò sette Paternoster in nome del prete e del Papa,
mentre le metto come una fasciatura attorno all’arto”.
(Moreschi A., Porchia C.,2012, p.19)
Se l’arto non si risanava immediatamente, nonostante la giaculatoria rituale, il medico non mancava mai di recitare un suo lungo augurio consolatorio al paziente per rimediare all’insuccesso.
Diversi riti cerimoniali magici venivano celebrati in occasione delle nascite, per annullare ogni interferenza arcana nei confronti del futuro bambino, altrimenti preda inconsapevole del mondo delle fate.
Queste convinzioni sui poteri della magherìa e di molte superstizioni popolari discendevano dall’epoca del primo druidismo, infarcito di misteri e manipolazioni occulte.
Certe piante erano sospettate di far cadere le persone in indicibili fatture, soprattutto il “Giglio di acqua” (Nymphaea alba) e tutti i Giunchi, lo Schoenus nigricans in particolare, accusato di fornire ai folletti l’asta per le frecce, la cui punta era scolpita in selce bianca, intinta nelle gocce di rugiada che si depongono sulla velenosissima Cicuta (Conium maculatum).
Riti e antichi rimedi
All’epoca latina risale il testo di un autore Gallo, Marcello detto poi Empirico, “De medicamentis empiricis, physycis ac rationalibus liber” (V secolo d. C.) composto da 36 capitoli.
Qui sono raccolti antichi rimedi tradizionali, comprensivi di descrizione delle cerimonie e delle giaculatorie, che lo stesso Marcello dichiara di aver raccolto oralmente, direttamente da contadini o gente comune della Gallia.
La malattia veniva considerata diretta conseguenza dell’influsso di oscure forze soprannaturali, così che il trattamento di un gozzo prevedeva la divisione trasversale in due parti di una radice di Verbena, una parte veniva sospesa sopra il collo e l’altra esposta al fuoco.
Col lento disseccarsi della radice ad opera del calore, anche il gozzo si sarebbe ridotto fino a sparire.
Le fonti storiche, inoltre, li indicano come precursori in ambito oftalmologico, annoverando oltre al primo – a quanto sembra – intervento di cataratta, molteplici ricette di colliri per svariate problematiche.
Insegnamenti tramandati
Nel libro VIII di Marcello, dedicato agli occhi, vengono elencate ben 37 ricette, suggerendo l’esistenza di una specialità medica molto sviluppata in Gallia durante il secondo e terzo secolo. L’ipotesi è avvalorata dal ritrovamento in antichi insediamenti gallici, di strumenti oculistici come spatole, coltelli, pinze, mortai, scaglie di piccole dimensioni.
Nessun documento esistente, però, permette d’individuare una scuola in una città della Gallia. L’ipotesi più probabile è che gli apprendisti oculisti Galli abbiano viaggiato molto, soprattutto nel Nord e nell’Est, scambiandosi rimedi e protocolli durante gli spostamenti in occasione di corsi di studio presso colleghi più esperti.
Le ricette scoperte (200 circa) sono prevalentemente incise su tavolette di pietra ollare larghe cinque centimetri e riportano sui bordi il nome dell’oculista, quello del collirio e l’indicazione terapeutica. Al centro una cavità dove preparare il farmaco e, contemporaneamente, consultare i dati.
I Galli avrebbero utilizzato almeno 150 piante fra le quali spiccano il Vischio come panacea universale, la Celidonia contro morsi e punture, il Timo serpillo come antisettico ed il Farfaro per le infezioni polmonari.
Le piante della medicina celtica, comuni peraltro alla farmacopea di gran parte dei popoli dell’antichità, in alcuni casi utilizzate ancora oggigiorno per la preparazione di fitoterapici, dovevano certamente essere molte di più.
Secondo la mitologia druidica ammonterebbero a 385, tante quante Dian Cecht, il Dio della medicina celtica, ne avrebbe fatte spuntare dalla dissoluzione delle proprie spoglie, dopo la morte.
Roberta Viotti, Piante officinali e tradizione celtica (breve estratto)